«È cinta da grandi e alte mura con dodici porte». La città antica era costruita attorno alle mura e alle porte. Mai le une senza le altre. Solo così si stava al sicuro e – al tempo stesso – in relazione. Prendendo spunto dall’immagine utilizzata dall’Apocalisse nel descrivere la città futura, possiamo spingere lo sguardo su queste “terre mosse” dell’Appennino che – dopo anni di incertezza e di ritardi – sembrano avviate finalmente alla loro ricostruzione. Ora che la ricostruzione è partita, però, ci si accorge che non basta ri-costruire. Occorre, ancor prima, “costruire” un nuovo rapporto tra l’uomo e l’ambiente: non limitarsi, cioè, a riprodurre le forme del passato, ma lasciarsi provocare dalla natura, che è creativa e aperta al futuro. Non si tratta, infatti, di un nostalgico recupero della dimensione bucolica, ma di un progetto di investimento economico e di sviluppo demografico, rivolto ad una parte dimenticata del nostro paese, che era tale ben prima del terremoto del 2016. Questi borghi, dunque, vanno ripensati perché sono oggi luoghi di grandi potenzialità. Ciò accadrà se stipuleremo un vero e proprio “contratto” tra la città e la montagna. C’è un enorme debito – pensiamo all’acqua potabile, all’aria pulita, al cibo di qualità, al legno degli arredi – che le città hanno maturato verso le aree interne e i loro piccoli insediamenti. È arrivato il momento di onorare questo “debito” con un progetto di reciprocità economica. È necessario alla transizione ecologica vedere riconosciuto il debito straordinario che avremo verso chi, riabitando i piccoli centri e i borghi, si prenderà cura di un’agricoltura di qualità, dei boschi, del mare, dei laghi, delle coste, del paesaggio ancora bellissimo dell’Italia. Non abbiamo bisogno di nuovi presepi, ma di piccoli centri attivi, a presidio di un territorio ancora straordinario e attraente per l’autenticità dei luoghi.
A proposito di autenticità, Gesù elogia Bartolomeo con queste parole: “Ecco un uomo in cui non c’è falsità”. Vorrei esprimere una proposta, che so condivisa da tanti e attesa da tanto. Il “ponte”, forse il più urgente, da costruire nel nostro paese si chiama l’Italia centrale. Di recente, un’indagine di Bankitalia documentava il ritardo che patisce proprio il Centro-Italia per l’incomprensibile arretratezza delle sue infrastrutture. Lasciare che qualche centinaio di chilometri tenga ancora oggi separati l’Adriatico e il Tirreno – al netto di una Salaria in via di definizione – è un’imperdonabile leggerezza. Per uscire dal vago, si tratta di decidere se la “Ferrovia dei due mari” sia un’idea da cestinare o da progettare e realizzare qui, ora e subito. Ha scritto un poeta contemporaneo: «I paesi italiani non sono mai stati tanto interessanti. E i paesi che hanno subito terremoti lo sono ancora di più… Questa diserzione dai paesi è una delle illustrazioni più efficaci dell’idiozia contemporanea. Solo un mondo poco immaginativo e in fondo rassegnato può permettersi il lusso di non vedere che tesoro stiamo sprecando, quante incredibili risorse contiene un paese» (F. Arminio).