Il comportamento di Gesù che sta in compagnia con gente equivoca, peccatori ed empi, cozza contro l’ortodossia religiosa del suo tempo, che intende mantenere nettamente separate le due categorie: i giusti da una parte e i peccatori dell’altra. Questa netta demarcazione giova alla tranquillità dei giusti, per i quali il compimento preciso delle regole della Torah conduce alla giustizia, che permette di presentarsi davanti a Dio con sicurezza. Anche quando ci fossero state delle mancanze, è sufficiente che con digiuni, con opere di misericordia, con lo studio della legge, si faccia quadrare il bilancio. Questo stato di cose è quello che il Maestro intende far saltare con il suo comportamento, perché compromette l’immagine di Dio, la cui salvezza è sempre possibile a tutti e nessuno in partenza è dato per perduto. Egli supera così la classificazione tra giusti e peccatori, la quale finisce per diventare una caricatura di Dio e del suo modo di agire nella storia.
Non è l’applicazione pedante di regole estrinseche ciò che ci salva. Non c’è salvezza che non passi prima dal nostro cuore, che si è lasciato toccare, commuovere e dunque muovere (che poi è il significato letterale di misericordia). Per questo Gesù dice spesso, nel Vangelo «la tua fede ti ha salvata»: non l’applicazione di una legge che resta comunque fuori di noi, ma il diventare nuovi per aver accolto dentro di noi la carezza di Dio. Bisogna ripartire da qui per entrare dentro la piccola parabola della dramma perduta, una sorta di parabola gemella della pecora perduta, che anticipa quella più celebre del figlio perduto. Ci sono però delle differenze tra le due. Non solo la maggiore e minore lunghezza (7 versetti la prima, 3 soli versetti la seconda), ma anche il fatto che la prima ha per protagonista un uomo possidente, la seconda una donna povera. L’una si svolge all’aperto, l’altra nel chiuso di una casa.
Nella situazione ecclesiale le due parabole sono un invito ai cristiani della seconda generazione a far posto a quanti vengono da fuori, a rallegrarsi per la loro conversione. È la comunità ora che deve dar prova di essere accogliente con uno stile che ricalchi quello di Gesù, cioè un clima di festa gioiosa, che rende attuale e visibile l’azione salvifica di Dio nel mondo.
Passiamo ad analizzare il testo per poi ricavarne alcune dritte per la nostra vita.
«O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?».
Una dramma equivaleva alla paga di un giorno lavorativo o anche al valore di una pecora. Qui in azione è una donna che è costretta a scoprire improvvisamente di aver perduto una moneta, che faceva verosimilmente parte della sua dote. Rispetto alle cento pecore, qui è in gioco qualcosa che è proporzionalmente più grande e che attesta una perdita ancora più rilevante. La donna si accorge di aver perduto una parte significativa del suo capitale e per questa ragione si mette in ricerca, preoccupata magari dell’ira del marito o della critica della suocera. Che cosa fa? Accende la lucerna per illuminare lo spazio interno senza finestre e comincia a spazzare la casa, cercando attentamente ,finché non la ritrova. Questa cura per la moneta dice di un atteggiamento di Dio che non valutiamo mai abbastanza. Per Dio il singolo viene prima della massa e della legge. Gli sta a cuore la dramma perduta che non sa neanche di aver smarrito la propria via. Questa inconsapevolezza della dramma è, in fondo, un’allusione ai giusti, che non sanno di essersi smarriti essi stessi per primi, avendo dimenticato che Dio non è come lo immaginano loro.
La cura è descritta dallo spazzare la casa, che è un gesto tipicamente femminile, ma introduce anche uno stile che è quello di prendersi a cuore le situazioni confuse per cercare di fare pulizia, eliminando tutto quello che è di ostacolo, per rinvenire attraverso il tintinnio della moneta il prezioso oggetto perduto. Che significa cura? Vuol dire interesse vero, preoccupazione sincera, ostinazione duratura. Soprattutto significa essere disposti a perdere tempo per qualcuno. La donna meglio di chiunque altro sa che cosa vuol dire “perdere tempo”, perché conosce l’attesa della gestazione, la pazienza dello svezzamento, la lunghezza della crescita…
Noi siamo giustamente gelosi del tempo, ma spesso ci dondoliamo tra l’ammazzare il tempo e il trattenere il tempo per sé. Quando è stata l’ultima volta che ho perso tempo per qualcuno?
«E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta».
Potrebbe sembrare una notazione maschilista questa spontanea voglia di festeggiare con amiche e vicine. Quasi la voglia di ritrovarsi a ciarlare tra donne! Ma, in realtà, qui emerge un altro tratto del volto di Dio. Non sa starsene da solo. Deve condividere con altri la gioia della dramma perduta che è stata ritrovata. Quanta distanza rispetto al nostro modo abituale, che suona sempre come un giudizio sferzante, della serie: «Te l’avevo detto, che sarebbe andata a finire così!». Qui c’è semplicemente la soddisfazione per aver ritrovato quello che non c’era più e la voglia di rallegrarsi con le persone più vicine, non per spettegolare, ma per festeggiare.
L’incapacità di gioire del cambiamento degli altri è una difficoltà che non riusciamo ad attraversare. Ci sembra che la trasformazione degli altri ci tolga qualcosa, attenui il nostro personale successo e comunque metta in discussione la nostra buona coscienza. Festeggiare richiede un cuore libero e disinteressato, un cuore largo (macrotymia), che spesso difetta soprattutto in chi si pensa perfetto…
Festeggiare è uno dei verbi della Evangelii Gaudium (prendere l’iniziativa, accompagnare, fruttificare e festeggiare), senza il quale il nostro essere cristiani non è pieno, perché manca di quella gioia che è il segno tangibile che il nostro cuore si è lasciato trasformare. Non c’è gioia piena se non nella condivisione, e questo le nuove generazioni lo sanno meglio di noi adulti, educati all’individualismo.
Festeggiare significa anche uscire dalla logica del calcolo, della misura stretta dell’interesse, e adottare la logica larga, che “allarga” prima di tutto chi la pratica: il dono. La follia del messaggio evangelico, che è fonte di una libertà senza pari, sta proprio nello sbarazzarsi di ogni grettezza, che in nome di un piccolo vantaggio immediato preclude la via della pienezza gioiosa. La gioia non è nel possesso, ma nella condivisione. E nella condivisione il bene si moltiplica, come nella parabola dei pani e dei pesci. Nella logica utilitaristica è dunque stoltezza chiamare le vicine a festeggiare, con un costo certamente superiore a quello della moneta ritrovata. Ma nella logica evangelica questa parabola è una delle tante “porte” che ci fa uscire dalla stanza stretta e un po’ asfittica del nostro io e ci apre un mondo grande, dove si respira pienezza e gioia, che possono esistere solo nella relazione e nella condivisione (non per niente Dio stesso è Trinità!).
So festeggiare e non semplicemente divertirmi? Nel primo caso c’è un ampliamento della gioia, che mi fa respirare a pieni polmoni gli altri; nel secondo c’è un consumo privato, che mi richiude nel cerchio della solitudine.
«Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
La gioia di Dio è il segreto dell’esistenza, che non è sotto il segno della maledizione e della condanna, ma piuttosto del perdono e della riconciliazione. Questa possibilità per noi umani è rara, perché le durezze e i fallimenti della vita ci portano a perdere quella agilità che consente di rivedere punti di vista, giudizi a monte e a riaprire rapporti, superare contrasti, rimuovere incomprensioni. La gioia di Dio nasce dal suo essere paradossalmente grande e infinito e per questo capace di curvarsi su ciò che è piccolo e limitato. A noi umani viene strano concedere oltre la giustizia, perché sembra mettere a repentaglio la nostra incolumità. Dio non teme per se stesso e si espone perfino alla banalizzazione, perché è molto più intenso il suo desiderio di incontrare l’uomo, che la paura di essere strumentalizzato.
So rischiare di essere usato, ma senza privarmi della possibilità di concedermi, oppure calcolo tutto e per paura finisco per non concedere neanche lo stretto necessario per entrare dentro la gioia di Dio?
Venendo a noi, tre questioni ci vengono incontro per essere meditate nel nostro cuore nei minuti di silenzio che seguiranno.
1. La donna è il simbolo di una cura per il singolo che bisogna ritrovare. Non sarà che anche noi dobbiamo tornare ad avere cura di qualcuno? Chi concretamente è l’oggetto di questa speciale attenzione che non risparmia tempo e si spende nel quotidiano?
2. La capacità di condivisione dice che non si può vivere isolatamente. La mentalità individualista di oggi sposta l’attenzione dalla gioia al piacere. Questo può essere facilmente procurato in solitudine, spazzando via gli altri. La gioia invece richiede una condivisione con gli altri, che è la parte mancante del nostro essere al mondo. Perché siamo diventati incapaci di gioire insieme e finiamo per selezionarci tutt’al più ambienti esclusivi, in cui ci ritroviamo solo con chi la pensa come noi?
3. La gioia nasce dal grande e non dal piccolo. Non è un segno di debolezza, ma di sovrabbondanza. Che cosa nella mia vita deve cambiare per aprirmi a questa dimensione, che sembra surrogata da altre forme di consumo e di piacere che ci fanno ritrovare soli e insoddisfatti?